2005 | Paola Marzoli | Milano, Galleria Rubin

(dal catalogo per la mostra)

APPUNTI DI VIAGGIO

Procedo per indizi. Indizi trovati al margine del terreno praticabile che permettono di entrare, un passo per volta, nell’altro sconosciuto, di accoglierne i passaggi.
Prima erano riferimenti culturali poi sono diventati indizi.
Il procedere per riferimenti culturali mi viene da Aldo Rossi.
Anche le persone incontrate sono riferimenti. Quando avevo venti anni Aldo Rossi è stato un riferimento, oggi lo ricordo come un indizio.
Negli anni della mia formazione giovanile ho incontrato due persone riferimento: Aldo Rossi e Silvia Montefoschi.
Cosa li accomuna? Visti da oggi, un incontenibile fuoco interno, bilanciato (a impossibile contenimento) da un granitico principio di forma.
Ma, per me, la forma dell’architettura era troppo forte. I muri mi facevano male. Così mi era troppo pesante, come una gabbia, il pensiero (alla fine hegeliano) di Montefoschi.
Né poteva essere una soluzione il passaggio all’architettura ‘leggera’ che sarebbe diventata quella di Ghery e al ‘pensiero debole’ che correva in quegli anni. Non l’ho fatto: l’avrei sentito come uno slittamento a margine, una vacanza, un tirarmi fuori, un "perdere il fuoco".
In pittura da sempre amavo Piero. A lungo ho lavorato sulla madonna colonna di Piero. La madonna della Misericordia, colonna tra oranti inginocchiati, uguale, nel contorno compositivo, al bassorilievo che sta sopra la porta dei leoni a Micene. Colonna tra leoni rampanti.
Dentro la colonna pensata di Piero, la madonna sta come la dea arcaica, signora degli animali e poi guardiana delle porte urbiche (Ianua cieli).
Ho lavorato molto sulle Annunciazioni rinascimentali. Quelle di Piero, Beato Angelico, Domenico Veneziano: sullo spazio prospettico dell’hortus conclusus. L’indizio era la parola ‘hortus conclusus’. Quello spazio protetto in cui avviene qualcosa di più. Ma che ci vuole uno spazio protetto per farlo avvenire.
In seguito (forse dopo la malattia e durante i quindici anni di sospensione della attività espositiva) ho amato la pittura che stava sul limite tra forma e sfaldamento. Da Tiziano vecchio a Pollok. Ma era un amore non corrisposto. Quella pittura mi faceva bene ma era per me impraticabile.
In quegli anni i riferimenti sono diventati indizi. Alla Grecia sono arrivata tramite Edipo ed Edipo non è stato un riferimento culturale ma un indizio, un luogo in cui ho camminato per anni, avanti e indietro.
Edipo è la tragedia greca. Edipo porta in scena il lato oscuro della civiltà greca, il desiderio di ritorno alle origini, negato come regressivo, e che pure dava tragedia e dunque anima a quella civiltà.
Edipo negava la sua sofferenza e, incapace di nominarla e farsene carico, si ergeva davanti ad essa come davanti al fato avverso e si esercitava nel principio di virtù fino a rendere il conflitto umanamente insostenibile. Il desiderio, costretto nella mente dell’uomo ‘misuratore di tutte le cose’, definito solo negativamente dalla civiltà greca come ‘smisuramento’, faceva esplodere dall’interno l’uomo pensante e ne disgregava il cosmo.
Pollà tà deinà koudèn anthròpou deinòterov pélei.... (Molte le cose terribili ma più terribile l’uomo...) (fa dire Sofocle al coro dei vecchi nell’Antigone).
Ed’eméra fùsei se kaì diaftherei. (Questo giorno ti fa nascere e ti distrugge...) (dice Tiresia ad Edipo, un attimo prima del disvelamento dei fatti, nell’Edipo re).
Sofocle, nell’ultima tragedia da lui scritta, forse a novanta anni, accompagna Edipo fino al perdono delle madri Eumenidi, fino al suo sprofondamento nel loro bosco sacro a Colono.
Sofocle non scioglie il dramma di Edipo, nè lo tronca, ma ce lo consegna aperto. Aperto e intrattabile nella misura della ragione, come se lo trova in mano l’uomo laico odierno.
I miei ‘quadri greci’ partono da un fondo nero. Germogliano nell’ombra nera delle pietre bianche.
Ho viaggiato per la Grecia cercando pietre. Pietre lavorate secondo il più perfetto principio di forma e arrivate sull’orlo del disfacimento. Nel disfacimento già vive ad offrire una forma più interna.
Ho guardato sempre più da vicino le pietre a cercare l’aggregarsi e il tenersi interno della materia. Ancora colonne come in Piero, ma questa volta toccate, accarezzate come materia viva.
A Priene ho trovato la perfezione architettonica. La misura perfetta. E pure, ravvicinata, la scanalatura della colonna torna a rivelare, chiusa nella sezione circolare, la greca cretese, e le precedenti onde del mare. Nella misura perfetta torna a trasparire, disgregante, la grande madre mediterranea lasciata indietro nell’impresa della civiltà.
Ho dipinto diversi ricci: gusci di ricci marini. Solo in seguito mi sono accorta che il riccio/echino era il capitello dorico e ho visto l’occhio centrale dell’echino chiuso tra colonna e architrave. Mediazione ciclopica ad un incrocio non ancora croce.
Sono entrata nella voluta del capitello ionico. Dopo la grande fatica di quel vortice di pietra attorno al buco nero centrale mi sono fermata.
‘Ci siamo’, mi sono detta. ‘Termine corsa’. Fine del viaggio del preteso controllo dell’uomo sul cosmo. Siamo arrivati a vedere il dramma psichico dell’uomo scienziato che ha teorizzato nel cosmo i buchi neri.
Mi sono fermata davvero.
Allora è tornato fuori il fuoco. Distruttore ma gioioso. Rigeneratore come il dantesco ‘fuoco che li affina’. Cottura alchemica. Le pietre calcinate dal sole-leone di Micene. L’erba cotta dal sole e dal vento marino di Selinunte.

A Pasqua del 2004 mi sono detta che dovevo andare a Gerusalemme.
Pensavo di trovare le pietre del deserto. Ho riportato a casa gli ulivi del Getsemani.
Qualcosa è successo. Nel vuoto di quella attesa, lasciata aperta da Sofocle a Colono, si è mosso uno svolgimento: da lì è ripartita la storia.
Il rigore della forma architettonica e del pensiero filosofico, la grandiosa ostinazione greca a prender dentro tutto nella coscienza individuale si sono spostati verso una adesione amorosa alla realtà. Realtà sentita nel suo divenire universale, vivente e misteriosa nella materia delle pietre. Vivente e presente nel corpo. (Di Cristo).
Una possibilità di passaggio dalla vita come conquista al ‘sacrum facere’ dell’uomo che partecipa consapevole al corpo del vivente.
Una possibilità di passaggio dal pensiero duale della tragedia ad una partecipazione all’uno, logos che stava in principio. Oltre il rischio greco/edipico della caduta regressiva nell’indistinto originario, oltre al dramma della scelta per una parte che esclude l’altra e si fortifica nella definizione del nemico.
Un passaggio dal discorso come attacco/difesa alla testimonianza.
Un passaggio dalla virtù impervia alla partecipazione, al sacrificio, al perdono e alla tenerezza.

Per ora sto in viaggio, su un vagone ferroviario, tra Colono e Getsemani.