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2015 | Elena Pontiggia | Milano, Galleria Schubert

(dal catalogo per la mostra)

PAOLA MARZOLI. ALLA RICERCA DEL SIGNIFICATO.

Non è la prima volta che scrivo della pittura di Paola Marzoli. Ho sempre ammirato, e anche un po’ invidiato, il suo percorso alto: prima gli studi di architettura con un maestro come Aldo Rossi di cui è stata allieva e collaboratrice; poi il lavoro di redazione nella rivista “Controspazio”, fondata e diretta da Portoghesi; più tardi le ricerche di psicologia junghiana, gli studi sui simboli e gli archetipi, dalla mitologia antica all’arte delle civiltà classiche.

Ne ho sempre ammirato, anche, la capacità di tradurre quelle conoscenze (non professorali ma vive, nate non solo dai libri ma da viaggi, contatti, emozioni) in una pittura solo apparentemente semplice, che mimetizza dietro un’apparenza naturalistica una complessa ascendenza concettuale. Non è infatti il verismo, o l’iperrealismo, che interessa a Paola Marzoli.

Semmai la dimensione metafisica che si intuisce e si rivela nella realtà. Anche se le sue opere muovono sempre da una visione, la sua meta è quello che non si vede. Le sue piccole foglie indagate una per una, nel loro intrico e nel loro disordine, in un rigoglio che ha fretta di vivere, sono l’indizio di qualcosa d’altro.

Il soggetto del quadro non è la foglia ma la luce che la rischiara, la trascolora, traspare dall’azzurro smaltato del cielo sullo sfondo. E una luce che la ricopre o, al contrario, non riesce a penetrare nei recessi dell’ombra e allora sta alla porta di quel groviglio e bussa per farsi aprire. Certo, la realtà che Paola dipinge ha una sua bellezza immediata.

È difficile non lasciarsi attrarre da quelle foglie scontrose che si accartocciano su se stesse o si distendono inappagate, indecise tra il verde e l’argento; difficile non farsi catturare dalla trama dei piccoli rami che sopportano pazientemente il carico euforico delle drupe, i grappoli compiaciuti delle olive. È difficile anche non scoraggiarsi di fronte a quei labirinti senza via d’uscita, a quel proliferare senza ordine. Ma non è questo il punto.

Quelle muraglie di olivi, quegli arazzi vegetali in cui la luce non smette di filtrare sono una metafora della storia della salvezza. Non per niente gli alberi, le pareti, le sedie, le figure che vediamo nelle opere di Paola sono ricordi della Terrasanta. Nei suoi quadri ci sono gli ulivi del Getsemani, i muri di Cafarnao, gli amici di un pellegrinaggio che è a sua volta metafora del pellegrinaggio dell’esistenza.

A prima vista i suoi soggetti non hanno nessuna particolare sacralità, niente di quella pietas esibita che è sempre a rischio di fariseismo. Vegetazione e pietre non hanno nome: nessun contrassegno turistico, nessun monumento o reliquia carica di storia compare nei dipinti. Solo la didascalia ci ricorda, con discrezione, l’origine di vegetazioni e pietre.

Olivi e muri, del resto, non mancano neanche da noi, nella "dolce Lombardia coi suoi giardini", come la chiamava Campana. Paola compie da anni viaggi nelle terre di Canaan, conosce ogni pietra del Santo Sepolcro, ma poi sceglie come soggetto una sedia, vista in quei luoghi, che potrebbe trovare in qualsiasi mercato milanese.

La scelta non è senza significato. Perché, appunto, il tema di queste opere non è tanto o soltanto il creato, quanto Chi in quel creato agisce e lascia tracce. E il segno dell’infinito si può trovare in qualsiasi cosa finita. La metafisica di Paola Marzoli, insomma, presuppone un certo realismo lombardo. Nei suoi quadri, poi, tutto è dipinto con un amore ostinato per la compiutezza del disegno, per le cose come sono, senza intemperanze soggettive, aggiunte letterarie, ermetismi filosofici. Ha scritto Christian Schad che non c’è niente di più misterioso della chiarezza. È così anche per queste opere. Continuiamo a riflettere sul mistero della loro evidenza.

Con questa accentuata sensibilità verso la fisicità e la spiritualità delle cose, Paola Marzoli dipinge la storia. Il passato getta la sua ombra maestosa su tante sue opere: ed è un passato dai confini vasti, che ricostruisce dalla Grecia alla Turchia una mediterraneità mentale, passando per i luoghi della poesia e del mito. Quello che l’artista racconta, però, non è l’age d’or di una certa retorica utopistica. È, anzi, un passato malato, bisognoso di cure e medicamenti.

Se, come dice l’Apostolo, tutto il creato attende la redenzione, anche la storia, non esclusa quella sua parte più luminosa che è la storia dell’arte, la attende. Non c’è differenza, allora, tra un tempio e una pietra, se il punto di vista non è quello della bellezza, ma della historia salutis.

L’ultimo atto del percorso pittorico, dunque, è guardare all’albero, al ciotolo, alla goccia d’acqua. Possono sembrare composizione astratte, informali, le opere recenti di Paola Marzoli, caratterizzate da una minutissima punteggiatura. Ma non è così. Anche i nomi che si potrebbero avanzare, per esempio quello di un maestro del realismo americano come Wyeth, sarebbero fuorvianti. Il suo percorso si è svolto seguendo tracce diverse, dall’arte alla natura alla vita. Trovando in ognuna la stessa malattia, la stessa colpa originaria. Ma trovando anche una speranza di guarigione. Anzi, di miracolo.

In attesa del miracolo, il ciclo di opere ultime esposte in questa mostra, è ben più che il titolo di una serie di dipinti: è, quasi, una dichiarazione di poetica. Dai silenziosi ambienti neo-quattrocenteschi alle Annunciazioni; dal Partenone alle visioni parallele di statue e ammoniti, spirali e altri segni; dagli ulivi del Getsemani alle storie del Giordano, tutta la pittura di Paola racconta l’attesa del miracolo. Come quella bicicletta arrugginita, così inadatta a muoversi nel deserto (avete mai provato a pedalare sulla sabbia?), che attende un suo privatissimo, amorevole, "alzati e cammina”. Per poter cominciare, o ricominciare, il viaggio.